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LUNA DI FIELE
(BITTER MOON)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 21 febbraio 1993
 
di Roman Polanski, con Peter Coyote, Emmanuelle Seigner, Hugh Grant, Kristin Scott-Thomas (Francia, 1992)
 
Per più di una ragione, l'ultimo film di Roman Polanski sembra un tentativo di ritornare al passato. Anzi, all'inizio: visto come LUNA DI FIELE ricordi, più di ogni altro, il primo lungometraggio del regista polacco, IL COLTELLO NELL'ACQUA, girato nel 1962.

Durante un viaggio per mare, un invalido ambiguo ed intrigante (Peter Coyote) avvista una coppia di giovani, impeccabili inglesi in fase di confessata crisi del settimo anno. Il bambolotto in blazer è comprensibilmente impressionato dalla voluttuosamente debordante compagna del nostro (Emmanuelle Seigner, ergo madame Polanski in real life): e questi ne approfitta per accaparrarselo a mazzate di flash-back. L'incontro a Parigi tra lo scrittore in mal di pubblicazione e la camerierina ingenua incontrata sul bus, l'idillio che, complice la noia, si trasforma in relazione sado-masochista. La discesa - abbondantemente affrontata dal cinema dei fastidi grassi - verso gli abissi infernali dell'autodistruzione che ben sapete: con lui che si alterna con lei - a seconda del flashback - ad apparire agli occhi del bambolotto in blazer (e del relativo, contradditorio processo d' identificazione da parte dello spettatore) vittima o carnefice.

Nessuna sorpresa, insomma, se il cineasta più diabolicamente perverso - secondo i rotocalchi degli ultimi vent'anni - dei set internazionali, si è interessato al romanzo di Pascal Bruckner... Ed è allora come un secondo ritorno al passato: come se, dopo tanti film girati quasi per far dimenticare le proprie (gloriose) origini maledette, seguendo le mode dello spettacolo per grandi e quasi piccini, come in TESS, nei PIRATI o nell'ultimo FRANTIC, Polanski abbia voluto tornare ai suoi primi, diabolici amori.

Ci sono quindi infinite ragioni per le quali i conti avrebbero dovuto tornare in LUNA DI FIELE: la doppia vampirizzazione delle coppie incrociate, la passione-possessione con sfogo bello e pronto nella provocazione, l'universo di sensazioni essenzialmente fisiche da condensare in uno spazio claustrofobicamente ristretto, il ludico che s'intreccia con l'erotico. Sono i temi tradizionali sui quali si è da sempre organizzata la doppia natura del cinema polanskiano: quella del cineasta moderno, nutrito in cineteca, sensibile ai riferimenti di una cultura del proprio mestiere (l'uso, ad esempio, della profondità di campo tipicamente hitchcockiana), che permetta all'azione di progredire con efficacia e lucidità, sul filo di una grammatica impeccabile come poche altre. Ed i flash rivelatori, i tagli insoliti dell'immagine, dal basso all'alto, di sbieco, su elementi stranianti, apparentemente superflui, comunque inquietanti. Il grottesco, l'humour fuori posto: l'altro aspetto, cioè, del regista polacco, la sua tendenza verso l'ambiguo, il fantastico, il deviante.

È invece quando meno te lo aspetti, che sprofonda questo che potrebbe anche passare alla storia come il peggior Polanski: la sceneneggiatura è lunga e ripetitiva, gli attori (a parte Peter Coyote che si dà da fare) inadeguati (la Seignier, che giudiziosamente cerca di contrapporre perfidi languori ad infantili smarrimenti, non è però all'altezza dell'ardua alternanza), il sesso poco esaltante, il maso non parliamone, le psicologie semplicistiche. È lo sguardo che Polanski pone su tutto quel po' po' di roba ad essere stranamente smunto: lui, che dai colori sbiaditi, dagli interni consunti, dalle prospettive inquietanti, dai movimenti di camera oppressivi aveva sempre saputo cavare illuminazioni esaltanti. Lui, che aveva dato prova di saper fare sempre di tutto (il film psicologico di REPULSION e quello fantastico di ROSEMARY'S BABY, il giallo di CHINATOWN e la satira di IL BALLO DEI VAMPIRI, lo storico di TESS e l'avventuroso de I PIRATI, il thriller di FRANTIC) qui sembra annaspare tre l'erotico ed il fantastico, il giallo, la parodia e il melodramma.

Problemi accademici, fastidi grassi come sopra? Mica tanto: perché lo sguardo cinematografico s'alimenta di una qualità essenzialmente morale. E quella polanskiana - quand'è mortificata come qui dal disordine espressivo -si riassume in una formuletta striminzita. Quando l'autore vuol farci capire che un suo personaggio non ne può veramente più (per solitudine, passione, angoscia, esaltazione o, più semplicemente per chè il congiunto gli ha rotto), sembra non trovare di meglio che sbatterlo in discoteca.

Per carità, lungi da me l'intenzione di demonizzare quel genere d'innocue istituzioni: ma farmi credere che è l'unico spazio a disposizione per risolvere le disperazioni esistenziali, è un po' un'operazione da jet-set intellettuale.


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